Elezioni in Turchia. Il finto stupore e l’inopportuna retorica pro-curda dei media occidentali.

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di Andrea Puzone

Per la prima volta da tredici anni a questa parte, nella Grande Assemblea Nazionale di Turchia non sarà presente una maggioranza assoluta monocolore. Pur rimanendo largamente il primo partito del Paese (41% delle preferenze), l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), al governo dal 2002, non è infatti riuscito a raggiungere i 276 seggi su 550 necessari a formare una nuova maggioranza parlamentare senza ricorrere ad una coalizione, perdendo quasi il 9% dei consensi rispetto alle elezioni del 2011.

Il CHP (Partito Popolare Repubblicano, di tradizione kemalista) è rimasto ai livelli del 2011 (25%), affermandosi come è tradizione sulla costa dell’Egeo e in Tracia. L’MHP (Partito di Azione Nazionalista, formazione nazionalista di estrema destra) ha ottenuto circa il 16% dei voti, crescendo rispetto all’ultima tornata elettorale. L’HDP (Partito Democratico dei Popoli), inedita formazione di sinistra e filo-curda, è riuscito ad entrare in parlamento, ottenendo il 13% dei consensi.

Se non certo scontato, tale risultato era quantomeno prevedibile. Al netto dello studiato stupore sensazionalistico dei nostri quotidiani, infatti, nelle ultime settimane era apparso piuttosto chiaro che la speranza del Presidente Erdoğan di arrivare a conquistare 330 seggi (i 3/5 dell’assemblea), e poter così cambiare la Costituzione in senso presidenziale senza ricorrere a larghe intese, aveva ben poche possibilità di realizzarsi. Il risultato più realistico era perciò da considerarsi quello di una nuova maggioranza del 50% + 1 dei seggi.

Il timore di possibili brogli, espresso dai partiti di opposizione (prontamente supportati dai media occidentali a ranghi compatti), si è rivelato a dir poco inconsistente: le elezioni, svoltesi peraltro in un clima di singolare serenità, dopo una campagna elettorale molto aspra e a tratti violenta, hanno dato come risultato l’esito più sfavorevole che si potesse immaginare per il partito attualmente al governo. Rimarchevole, inoltre, l’affluenza alle urne, che si è attestata sull’86%. Una lezione non da poco per alcuni superficiali analisti nostrani, i quali, ne siamo certi, non trarranno da ciò il sia pur minimo insegnamento.

Si apre, adesso, una delicata pagina politica per il Paese, alle prese da tempo con un rallentamento dei ritmi di crescita e forse destinato, nell’immediato futuro, ad una fase di stallo istituzionale. I modi nei quali è stata condotta la campagna elettorale, la forte polarizzazione politica e le profonde divergenze ideologiche nei programmi dei quattro partiti rappresentati in parlamento (AKP, CHP, MHP, HDP) non rendono semplice nessuno tra i possibili scenari di coalizione immaginati nelle scorse settimane. Rimane possibile la formazione di un ipotetico governo di coalizione AKP – MHP, pur considerando l’effetto devastante che ciò avrebbe sui negoziati in corso con il PKK, mentre sembra assolutamente fuori dalla logica l’alleanza CHP – MHP – HDP.

In particolare, l’HDP è stato considerato a ragione l’ago della bilancia della contesa elettorale. Il superamento della soglia del 10% (introdotta dal regime militare negli anni ’80 esattamente per ostacolare l’ingresso in parlamento di partiti a base etnica curda), e la conseguente elezione di 80 parlamentari hanno, infatti, sottratto una cospicua porzione di seggi all’AKP più che ad ogni altro partito.

Questa importante e non del tutto inattesa prestazione del partito guidato dal carismatico Selahattin Demirtaş, che ha presumibilmente drenato voti anche da chi non ne condivideva la piattaforma politica, avendo come obiettivo prioritario quello di non consegnare una nuova maggioranza all’AKP, ci offre lo spunto per alcune riflessioni. In primo luogo, è bene essere chiari sulla natura di tale formazione politica. Non si tratta infatti di un partito etnico curdo, ma di un eterogeneo movimento di sinistra libertaria, anti-nazionalista e favorevole all’espansione dei diritti delle minoranze, curdi compresi (ma non solo). Peraltro proprio per queste posizioni, come accennato, sembra impossibile una qualche forma di alleanza programmatica tanto con il CHP quanto con l’MHP. Del tutto fuorvianti sono perciò i titoloni di alcune testate anche prestigiose che cianciano di “curdi che spezzano il sogno del Sultano” e amenità varie, impedendo, di fatto, la corretta comprensione delle dinamiche politiche in atto.

In secondo luogo è bene ricordare – quasi nessuno dei non addetti ai lavori lo fa – che è al partito che governa il Paese dal 2002 che si deve la progressiva rimozione del tabù della questione curda. Soprattutto durante le prime due legislature AKP, infatti, furono compiuti importanti passi avanti verso una maggiore inclusione sociale e politica dei cittadini turchi di etnia curda, discostandosi nettamente, in questo, dall’inflessibile approccio adottato dai governi turchi del passato, maggiormente condizionati dall’eredità kemalista e caratterizzati da un approccio alla questione non più al passo con i tempi. Questo è particolarmente evidente analizzando la distribuzione dei voti: nelle zone a maggioranza curda del Sud-Est, nelle quali l’HDP ha ottenuto picchi di consenso dell’85%, il secondo partito è per distacco l’AKP (tra il 9 e il 30%), mentre il CHP, secondo partito nazionale, deve accontentarsi di percentuali che non arrivano al 2%.

Terzo, il fatto veramente importante dell’affermazione dell’HDP non è tanto l’”ingresso in parlamento dei curdi”: questi in parlamento c’erano già da alcuni anni, sebbene presentandosi come candidati indipendenti per aggirare l’elevata soglia di elezione. Politicamente più rilevante è invece, a mio avviso, l’inedita presenza nella Grande Assemblea Nazionale di un partito di sinistra più vicino ai suoi simili europei, stante il fatto che il CHP, considerato una forza di centro-sinistra (e facente parte dell’Internazionale Socialista) ha tradizionalmente espresso istanze conservatrici e nazionaliste.

In conclusione, è certamente possibile sostenere che si sia aperta in Turchia una fase politica nuova e complessa, il che rende estremamente difficoltosa la formulazione di previsioni. Certamente vi sono degli sviluppi interessanti. L’AKP ha pagato in primo luogo la disastrosa gestione della questione siriana ed il rallentamento dell’economia, ma rimane il partito le cui preferenze sono diffuse nel modo più uniforme nel Paese. L’affermazione dell’HDP è un fenomeno difficilmente sottovalutabile, tenendo presente non solo, come già detto, la questione curda. La rilevanza di tale exploit sta infatti nell’avere aggiunto un nuovo importante attore parlamentare, dai caratteri inediti per quanto riguarda la politica turca, che ha la possibilità di spostare gli equilibri in gioco e di apportare contributi alla dialettica democratica del Paese.

Personalmente, rimango del parere che il potere logori chi non ce l’ha. Tuttavia, è difficile negare una certa involuzione nella capacità dell’AKP e della sua leadership di assumersi e portare avanti impegni con coerenza e convinzione, come accadeva sino a pochissimi anni fa. Del resto, bisogna pur sempre considerare che il partito fondato da Erdoğan rimane saldamente il più votato, forte anche della stabilità politica garantita negli ultimi lustri ad un Paese che era uscito a pezzi dal “decennio perduto” degli anni Novanta. La speranza è che la presenza di un’opposizione più forte spinga l’AKP ad un nuovo sforzo riformista dopo quello delle prime due legislature.